Qualche tempo fa ho avuto la fortuna di poter assistere a un talk di @rainwiz che mi ha un po’ liberato di alcuni pregiudizi che avevo riguardo ai miei colleghi designer, i quali si occupano solitamente di migliorare la forma dei prodotti software lasciandone pressoché immutata la sostanza. Io da parte mia l’ho sempre pensata alla Don Camillo, ovvero “una cosa è bella quando è di buona qualità e serve bene al suo scopo”, e ho sempre messo font/colori/immagini in secondo piano rispetto alla “ciccia”. Ebbene in quella lunga e interessante serata di novembre ho scoperto che gente molto in gamba, spesso ferrata in psicologia (o nel caso dello speaker antropologia), si occupa quasi interamente di raccogliere informazioni attraverso interviste e questionari cercando di alterare il meno possibile i loro oggetti di osservazione (di solito i futuri utenti dei nostri software).
Esistono UX engineers (UX sta per User eXperience) che più di abbellire la UI si preoccupano di capire come ragionano gli utenti, di sfruttare scorciatoie psicologiche per facilitarne il lavoro, di evitare tranelli mentali che potrebbero causare spiacevoli inconvenienti.
ATM, goal e dimenticanze
Vi era un tempo, nemmeno troppo lontano, in cui andando a prelevare contante la gente dimenticava la propria carta/bancomat nell’ATM. In molti si saranno chiesti il perché, visto che il processo di prelievo era perfettamente simmetrico – carta => pin => soldi => carta – finché probabilmente si sarà richiesto il parere di qualche esperto psicologo (o studente in psicologia, tanto basta), e l’arcano è stato svelato.
Sopra la sequenza originaria, sotto quella attuale
Il problema non era tanto nella smemoratezza degli utenti, quanto in una delle
funzioni esecutive della nostra mente, e nel caso specifico in quella del mantenimento del
gol/meta/obiettivo in memoria.
Il concetto è semplice: si va all’ATM con un
compito (task) chiaro, il prelievo di contante, e la nostra mente focalizza l’attenzione su questo obiettivo; una volta che lo si è raggiunto l’operazione è terminata, e tutto il resto rischia di cadere nell’oblio. Guardando questo flusso dalla giusta angolazione, il ricordarsi di prendere la carta prima di andarsene sembra più un’eccezione alla regola che non il contrario. Vero che se si ha tempo e si è concentrati nello svolgimento del compito generalmente ci si ricorda, ma è proprio quando si è sovrappensiero che la mente lavora in automatico, e in queste occasioni un processo modellato non tenendo conto di questi aspetti di psicologia basilare può creare grossi problemi agli utenti, anche economici.
Restando in materia di goal un esempio diverso ma non troppo è secondo me quello dell’aperitivo al bar. Si va al bar per stare in compagnia, fare due chiacchiere e bere qualcosa, e prima o poi si paga. Gli obiettivi sono chiaramente due – lo stare in compagnia e il bere qualcosa – il pagare è soltanto un mezzo, ma dal momento che in ogni bar le regole un po’ cambiano (in alcuni si paga prima e in altri dopo, nel “nostro” capita di “segnare” e spesso il barista sa già cosa vogliamo), nella nostra mente lo schema non è ben definito, quindi questa se costretta a lavorare in automatico pensa solo a fare goal. Il tempo passa, si fa tardi e salutiamo, ecco che ci siamo dimenticati di pagare. Io da parte mia raramente mi dimentico di qualcosa, e a dispetto del detto “a pagare e a morire c’è sempre tempo” cerco sempre di pagare il prima possibile, eppure mi è capitato di essermene andato senza aver pagato, e l’ho fatto anche in posti diversi dal bar.
Sempre UX e psicologia, ma applicate alle casse automatiche invece che ai bancomat
Ieri sono andato a fare la spesa e per una volta, avendo tempo, ho provato a usare la cassa automatica. Tutto molto bello, con la doppia bilancia per evitare che la gente si “dimentichi” di passare qualcosa sullo scanner, il lettore di codici a barre fisso e manuale, il controllo umano in caso di acquisti di alcolici… riguardo a questo soggetto è doveroso aprire una parentesi, quell’uomo sembrava ad un passo dal tagliarsi le vene, credo che uno dei pochi lavori più brutti di quello di cassiera sia quello di addetto alla cassa automatica, chiusa parentesi.
Finito di passare gli articoli c’è da pagare, si preme l’apposito pulsante mentre si prende il portafogli e, guidati dalla voce che chiede l’inserimento di contanti o carta si procede con il dare in pasto i soldi alla macchina. Da un verso non li prende, dall’altro neppure, il lettore chissà perché sembra non funzionare. Eppure la voce continua a richiedere l’inserimento dei soldi…
Cassa automatica al momento del pagamento
Dopo un minuto circa passato a girare e rigirare la banconota incitato dalla solita impassibile voce decido di guardare di nuovo il monitor, distante quasi mezzo metro dal mangia soldi, e vedo che c’è scritto di selezionare il metodo di pagamento.
Lasciamo stare per un momento la mia distrazione a causa della quale ho perso di vista il monitor e non ho letto cosa dovevo fare, ignoriamo anche la voce registrata che mi richiedeva una cosa mentre il monitor me ne chiedeva un’altra, e torniamo alle funzioni esecutive. L’utilizzo della cassa automatica era per me un’operazione nuova, e l’ho svolta quindi seguendo le
istruzioni e comportandomi all’incirca come fossi stato d’avanti a una cassiera (allo stesso modo ho tirato fuori la carta fedeltà a metà spesa giusto perché mi sono ricordato, forse quella vocina avrebbe dovuto dirmelo all’inizio, o forse me lo avrebbe detto alla fine, chissà…). Arrivato il momento di pagare ho tirato fuori i soldi e per la mia testa questo doveva bastare, forse sarebbe stato il caso di abilitare direttamente i vari lettori aspettando uno qualunque degli input e richiedendo istruzioni soltanto in caso di
ambiguità (ad esempio sul tipo di carta). La cassiera a volte me lo domanda se voglio pagare con la carta, ma di solito il tenere in mano i contanti per lei è un messaggio abbastanza chiaro, ma non lo è stato per il software il tentativo di inserirli prima di avergli detto che lo stavo per fare. La user experience pensata dai designer è ottimale? Forse si può fare di meglio?
Di sicuro c’è che questa concezione di supermercato ai giorni nostri non ha più alcuna ragione d’essere, in futuro secondo me ci saranno supermercati molto più piccoli affiancati a grossi magazzini, le persone selezioneranno la merce da un monitor e se la ritroveranno in delle buste già pronta per essere ritirata. Oppure si prenderà all’ingresso soltanto un lettore di codici a barre e ci si muoverà per dei negozi pieni di monitor scegliendo la merce a colpi di scanner, per ritrovarsela alla fine già pronta. Forse la merce ce la consegneranno direttamente a casa. O forse non esisteranno più nemmeno i supermercati e si acquisterà tutto sul web con la possibilità di pagare un po’ di più per merce con scadenze più lontane e di meno per quelle a scadenza prossima. In questo modo si pagheranno meno stipendi per lavori avvilenti e inutili, si ridurrà il rischio di taccheggi, e soprattutto molti meno alimenti saranno buttati perché scaduti. Vedremo.
Per il momento diciamo che il lavoro di cassiera al supermercato non può e non deve sopravvivere, è disumano.
Trasformare potenziali bug in features lavorando di esperienza e fantasia
UX non è solo fare in modo che l’utente esegua il proprio compito nel modo più semplice e appagante possibile, ma anche il cercare di fornirgli a basso costo funzionalità realmente utili e ridurre il rischio di errori.
Sono buoni tutti a investire tempo e denaro per sviluppare funzionalità di un software, ma non tutti sanno riconoscere l’opportunità di sfruttare potenziali bug per arricchiere il proprio programma. Nel libro I 36 stratagemmi il quattordicesimo stratagemma consiglia di “prendere a prestito un cadavere per rifondervi lo spirito”.
Stratagemma 14 della strategia cinese: “that’s a feature!”
Niente meglio di un buon aneddoto per fissare il concetto, raccontato da un esperto sviluppatore di mia conoscenza. Costui doveva aggiungere un sistema di messaggistica istantanea al proprio software e, trovatosi di fronte alla possibilità di inviare messaggi a se stessi, era prossimo a togliere questa possibilità perché poteva essere interpretata come un bug. Ebbene non lo fece, ma piuttosto mascherò questo “effetto collaterale non voluto” in modo da farlo sembrare una scelta, una possibilità di dialogare con se stessi come scrivendo su un blocco note. E ai clienti l’idea piacque. Per inciso questa cosa è possibile anche sull’applicazione Messenger di Facebook, ma non su Hangout di Google.
Buoni propositi pasquali
Non solo modellando processi da automatizzare al computer bisogna tenere conto di come funziona la mente, anche nella vita di tutti i giorni conoscere qualche fondamento di psicologia non guasta e può aiutare a evitare colossali figuri di me..a. Faccio quindi voto solenne, e questo articolo ne è testimone, che quanto prima cercherò di leggere almeno un libro sull’argomento e di riflettere un po’ di più sugli aspetti psicologici del mio lavoro ma anche del mio agire. Sperando di non dimenticarmene (il goal oggi è pur sempre lo scrivere quest’articolo).